"La vita o si vive o si scrive" (L. Pirandello)

lunedì 9 febbraio 2015

La Farsa di Carnevale

E' risaputo da tutti che il Carnevale è la festa più divertente dell'anno. Anche in Calabria questa festa è molto sentita, un tempo molto più di oggi.
Ci sono diversi comuni che organizzano bellissime feste, tra tutti, sicuramente quello più famoso e conosciuto a livello internazionale è il Carnevale di Castrovillari, in provincia di Cosenza.
La fondazione ufficiale di questa festa è datata 1959, anche se le sue origini risalgono al '600.
I festeggiamenti iniziano mescolando le tradizioni antiche a quelle più moderne.
Traendo origine dalle antiche farse calabresi, infatti, si avrà lo "scontro" tra Carnevale e Quaresima, alla fine della disputa Carnevale verrà incoronato re e otterrà le chiavi della città.
Segue poi la parte "moderna" della festa, con il "festival Internazionale del Folklore" a cui partecipano gruppi folkloristici provenienti da paesi d'Europa e dal resto del mondo.
Nel corso del festival, il gruppo che ha rappresentato meglio le tradizioni del proprio Paese sarà il vincitore del "Premio Cultura".
Non può mancare la sfilata dei carri allegorici e dei gruppi coreografici in maschera. Il carro e il gruppo che ha realizzato la coreografia più bella vengono premiati.
 
Un altro Carnevale calabrese che voglio segnalare è quello di Catanzaro lido (CZ), qui i festeggiamenti sono davvero particolari perché si svolgono sul lungomare, sono presenti i carri allegorici e gruppi di persone mascherate. E' tradizione, a Catanzaro, vedere sfilare uomini mascherati da donne e, viceversa, donne travestite da uomo. E la cosa è veramente divertente perché entrambi scimmiottano i difetti del sesso opposto. La festa prosegue in piazza, dove viene allestito il palco sul quale gruppi di artisti si esibiscono. Ovviamente anche qui le maschere più belle vengono premiate.
 
Adesso però vi voglio parlare del Carnevale antico, quello del bel tempo passato, quello delle farse carnevalesche.
Le "farse" sono delle recite in vernacolo a cui v'invito a partecipare. Per chi non è calabrese sarà un po' difficile capire le parole dialettali della tragi-commedia paesana per eccellenza ma non bisogna spaventarsi e rinunciare a priori, perché anche per noi calabresi, a volte, è un po' difficile riuscire a capirsi.  Non esiste, infatti, il dialetto calabrese perché la mia terra è ricca di svariati dialetti , per cui basta spostarsi di soli pochi chilometri dalla propria zona di residenza, per sentir parlare un'altra lingua con un accento diverso. 
 
Come il dialetto, anche la farsa subisce delle varianti da paese a paese ma, fondamentalmente, la base della storia è simile per tutte le versioni.
Carnalivaru (Carnevale) è il protagonista indiscusso della vicenda. E' un sempliciotto a cui piace solo bere e mangiare, soprattutto, sazizze e suppressate (salsicce e soppressate). Viene rappresentato con un'enorme pancia e naso e gote rosse per via dell'ebbrezza. La sua antagonista è Quaraisima (Quaresima) che è una donna vecchia, brutta e magra. In alcune versioni Quaresima è la moglie di Carnevale, in altre è una compaesana. La donna per tutto il tempo non fa altro che rimproverare Carnevale, invitandolo a darsi un contegno perché, continuando a darsi alla pazza gioia, potrebbe fare una brutta fine. Ma Carnevale non le da ascolto e continua a mangiare fino a quando non inizia a sentirsi male. Intervengono nella farsa altri personaggi, come il medico che soccorre Carnevale e il notaio che stila il testamento del moribondo. Il tutto condito da una miriade di battute dialettali che si riferiscono a modi di dire o a personaggi del paese stesso.
Alla fine Carnevale muore e, solitamente, a questo punto viene bruciato un fantoccio che lo rappresenta, a simboleggiare la fine della baldoria e l'inizio del periodo quaresimale che precede la Pasqua.
 
Nei paesi calabresi, inoltre, un tempo era usanza, per i soli uomini, mascherarsi e andare in giro per il paese, cantando canzoni in vernacolo e bussando ad ogni porta, invitando i padroni di casa a consegnare succulenti prelibatezze, specialmente salumi e, all'occorrenza, un buon bicchiere di vino rosso.
Oggi in alcuni paesi questa tradizione continua, solo che adesso sono solo i bambini a travestirsi con i loro costumi moderni e a chiedere caramelle o cioccolatini ai compaesani.
 
 
 
 
La "farsa" carnevalesca a Sersale (CZ)
V'invito, inoltre, a visitare questo blog:
da cui ho prelevato la foto che vedete qui sopra. Gli autori del blog sono i bambini della scuola elementare "CARMELA BORELLI" di Sersale che vi parleranno della loro bella festa di Carnevale!

martedì 3 febbraio 2015

Arcangela Filippelli

UN CANDIDO FIORE NEL GIARDINO DELLA CHIESA.

Lo scrittore calabrese Corrado Alvaro disse che "il calabrese o è pessimo o è ottimo, non conosce mezze misure". Oggi vi racconterò la storia di due calabresi, uno che visse la sua vita in maniera pessima e l'altra che la visse brevemente ma in ottimo modo. Facendo riferimento ai soli calabresi "buoni", si dice, inoltre, che la Calabria sia una terra di santi e forse è anche vero visto che il paese di Longobardi, in provincia di Cosenza, tra santi, beati e servi di Dio, ha la fortuna di averne generati addirittura quattro! Vi ho già raccontato la storia di San Nicola da Longobardi , per l'appunto, e oggi vi racconterò la storia di una ragazzina di soli sedici anni che si chiamava  Arcangela Filippelli.

Immagine prelevata dal sito www.santiebeati.it
 
 
 
Arcangela nacque a Longobardi in contrada “Timpa”, il 16 marzo del 1853, anche se, come accadeva spesso in passato, venne registrata in Comune il giorno successivo. Suo padre era Vincenzo Filippelli e faceva il bracciante mentre la sua mamma era Domenica Pellegrini, filatrice. I coniugi Filippelli erano persone oneste e religiose e insegnarono alla loro figlia la devozione per la religione. Arcangela fin da bambina frequentava assiduamente la Chiesa del paese. I compaesani la ricordavano per la sua bellezza, i capelli biondi e il suo sorriso gentile.
Era lei la ragazza più bella del paese e di ciò si accorse un suo compaesano, un certo Antonio Provenzano che in paese non godeva di una buona fama.
 
Il 7 febbraio 1869 era la domenica di Carnevale e in casa Filippelli mancava la legna da ardere. La madre di Arcangela mandò la figlia a casa di una compaesana, Anna Provenzano, per procurarsi un po' di legna, poiché il marito della donna lavorava come custode di un bosco privato. Quel giorno però anche in casa Provenzano mancava la legna, quindi la donna mandò Arcangela insieme alle sue tre figlie nel bosco privato in contrada “Russo” per procurarsi la legna di cui avevano tutti urgente bisogno. Il marito della signora Provenzano si chiamava Arcangelo ma, a dispetto del suo nome, era stato soprannominato “Lucifero” dai compaesani. Suo figlio Antonio, invece, era soprannominato "Facione", in entrambi i casi, i soprannomi stavano ad indicare che entrambi non erano degli stinchi di santo e che era meglio starne alla larga.
 
Dopo la Messa, Arcangela si avviò nel bosco insieme alle tre amiche. Sgattaiolarono via veloci per non rischiare di essere coinvolte nei festeggiamenti per il Carnevale, che all'epoca erano ritenuti occasione di peccato e roba per soli uomini. Antonio, però, lasciò perdere il Carnevale e, vedendo Arcangela, seguì le ragazze nel bosco con la scusa di volerle aiutare.
Il ragazzo aiutò prima le sorelle a legare le fascine di legna e, dopo aver sistemato il carico sulle loro teste, le invitò a rientrare in paese mentre lui sarebbe rimasto ad aiutare Arcangela. Era chiaro che il giovane cercava una scusa per restare solo con la ragazza, ma le sue sorelle non vollero lasciare l'amica e allora Antonio sistemò l'ultimo carico e, probabilmente, legò in malo modo la fascina, perché, fatti pochi metri, il carico di Arcangela si sciolse e la legna finì a terra.
 
Antonio allora spronò le sorelle ad avviarsi verso il paese perché si stava facendo buio e restò con l'ignara Arcangela per aiutarla a raccogliere nuovamente la legna caduta.
 
Fu allora che Antonio iniziò ad insidiare la povera ragazza, la quale, impaurita, iniziò a correre e ad urlare per il bosco mentre il giovinastro, sempre più intestardito nelle sue cattive intenzioni, la inseguiva. La giovane, in preda al panico, raggiunse un'altura dove si ergeva un albero di castagno e, non sapendo più dove fuggire né dove nascondersi, si aggrappò con la forza della disperazione all'albero. Il malintenzionato la raggiunse, insistendo nelle sue richieste oscene ma ottenne solo rifiuti decisi da parte della ragazza.
 
«La Madonna non vuole queste cose!» e «Morta sì, ma non mi farò mai toccare da te!» sono le parole che i testimoni dissero di aver sentito pronunciare da Arcangela.
 
Infuriato per l'essere stato rifiutato, Antonio estrasse la scure che portava con sé e cominciò a inveire sulla povera ragazza, colpendola a morte e mutilandole le mani, le orecchie e i piedi, infierendo poi  sul resto del corpo con oltre quaranta colpi.
Sia le sorelle Provenzano che alcuni contadini che si trovavano in zona, sentirono le urla della sfortunata ragazza ma, a causa del buio, della nebbia e della paura, nessuno si avvicinò per tentare di aiutarla. E, cosa ancora più grave, nessuno pensò di correre in paese a chiedere aiuto.
 
Fattasi sera, i genitori di Arcangela, non vedendo rientrare la loro figlia, iniziarono a preoccuparsi e così partirono le ricerche della ragazza. Antonio, nel tentativo di mascherare il delitto, si mise addirittura a capo di uno dei gruppi di volontari e quando gli uomini si avvicinarono troppo al luogo dove giaceva il corpo della povera Arcangela, smorzò il lucignolo della lanterna per impedire agli altri di vedere. 
Ci volle il sole dell'indomani perché il bracciante Pasquale Cavaliere, potesse ritrovare il cadavere e avvertire le autorità e la famiglia della sfortunata ragazza. I sospetti caddero subito su Antonio, il quale aveva cercato di crearsi un alibi recandosi al lavoro come se nulla fosse stato. Le sue sorelle, dapprima terrorizzate per quanto accaduto all'amica, trovarono poi il coraggio di denunciare il fratello che venne prelevato dal posto di lavoro e arrestato.
Tutta la popolazione di Longobardi e molti abitanti dei paesi limitrofi parteciparono al funerale di Arcangela, che fu seppellita nel cimitero cittadino.
Antonio venne processato davanti alla Corte d’Assise di Cosenza e il 17 maggio 1869 venne condannato a morte. La pena però non fu eseguita perché lui morì di cancrena il 5 agosto 1872, presso il carcere di Cosenza.
Quasi da subito la gente prese a visitare la tomba di Arcangela, la sfortunata ragazza che nessuno aveva saputo aiutare e che si era opposta alla violenza fino a morirne. Si creò una sorta di pellegrinaggio per cui, don Domenico Cananzi, a nome dei fedeli della sua comunità, ottenne il permesso dal Vescovo di Tropea di traslare il corpo della giovane martire nella chiesa di San Francesco di Paola a Longobardi.
 
 Il 22 settembre del 1973, sul luogo del martirio, fu eretta una croce, benedetta dall’allora Arcivescovo di Cosenza, monsignor Enea Selis.
Il parroco della chiesa di San Francesco, don Francesco Miceli, raccolse numerose testimonianze  per chiedere l’apertura di un processo canonico, poiché la storia di Arcangela era del tutto simile a quella della più conosciuta Maria Goretti, per cui la giovane calabrese ancora oggi è detta: "la Maria Goretti del sud". Il lavoro svolto da don Miceli non poté  essere completato  a causa della morte dell'anziano prelato e perché, nel frattempo, Longobardi era stata annessa alla Diocesi di Cosenza. Il suo lavoro però non andò perduto e monsignor Salvatore Nunnari, attuale Arcivescovo di Cosenza-Bisignano, costituì la Postulazione per la causa di beatificazione e canonizzazione di Arcangela. Il 7 febbraio 2007 la Conferenza Episcopale Calabra espresse il suo parere favorevole e il 23 di maggio giunse il nulla osta da parte della Santa Sede.  L’inchiesta diocesana sul martirio di Arcangela Filippelli si è conclusa il 29 maggio 2013. Adesso Arcangela è Serva di Dio e col suo gesto di preservare la purezza, anche a costo della propria vita, simboleggia un candido fiore nel giardino della Chiesa.


A lei è stato dedicato il film "Arcangela Filippelli. Martire della purezza", presentato nel corso della 9° edizione del "Mendicino Corto" festival internazionale del Cinema.
Il film è stato girato in Calabria, con attori calabresi non professionisti, affiancati dalla presenza nel cast del famoso duo calabrese Battaglia e Misefari, ed è stato prodotto dal "Centro Studi Salvini" e dal settimanale d'informazione dell'Arcidiocesi Cosenza-Bisignano "Parola di Vita".

Il trailer del film su YouTube.

 


 


mercoledì 7 gennaio 2015

Il terremoto di REGGIO e MESSINA (1908)



La sera del 28 dicembre alle ore 22:43, una scossa di terremoto, che ha avuto il suo epicentro in Sila, ha fatto sobbalzare la Calabria. La magnitudo è stata di 4.4 secondo la scala Richter, un terremoto abbastanza forte, sicuramente il più forte che la mia memoria ricordi, poiché quello terribile del 1980 che distrusse l’Irpinia e che fu avvertito in modo chiaro fino in Calabria, io non lo ricordo, ero troppo piccola allora.

Stavolta, grazie a Dio, non è successo niente, nessun ferito, e questo è l’importante. Si rimettono a letto i figli, raccomandando loro che, se dovesse arrivare una nuova scossa, vadano a infilarsi immediatamente sotto la scrivania e poi si spera che di scosse non ce ne siano più.

 In realtà di scosse il sismografo ne ha registrato altre tre, ma, per fortuna, si trattava di scosse di assestamento, impercettibili alla popolazione.

Quando (troppo spesso) la mia regione sobbalza, mi torna alla mente il disastroso terremoto che nel 1908 distrusse Reggio e Messina. Sarà stata una semplice combinazione ma la data degli eventi è la stessa: 28 dicembre 2014 il più recente, 28 dicembre 1908 quello passato alla storia come il più terribile disastro naturale della storia d’Italia. Con questa storia voglio iniziare l’altra sezione di questo blog, quella dedicata agli eventi storici accaduti in Calabria.

«Stamani alle 5:21 negli strumenti dell'Osservatorio è incominciata un’impressionante, straordinaria registrazione: “Le ampiezze dei tracciati sono state così grandi che non sono entrate nei cilindri: misurano oltre 40 centimetri". Da qualche parte sta succedendo qualcosa di grave. »

 Questo venne annotato nell’osservatorio Ximeniano di Firenze. A quel tempo esistevano già i sismografi ma erano apparecchiature ancora rudimentali rispetto a oggi, segnalavano la presenza di un evento sismico ma non erano ancora in grado di stabilire con precisione il luogo dove l’evento si era verificato. La notte di quel 28 dicembre di 106 anni fa, si sapeva solo che un grande terremoto si era verificato, probabilmente, da qualche parte in Italia.

Questo terremoto, nel tempo, prese diversi nomi: Terremoto di Messina, Terremoto di Messina e Reggio e terremoto calabro-siculo ma in Calabria è conosciuto come il “Terremoto di Reggio e Messina” ed è così che lo definiremo in questo post.

Era da poco passato il Natale quando, quella mattina di lunedì 28 dicembre alle ore 5:21 un terribile terremoto che ebbe come epicentro lo stretto di Messina, sconquassò con la violenza della sua magnitudo 7.2 scala Richter (XI scala Mercalli) le città di Reggio e Messina distruggendole quasi completamente.

In 37 lunghi secondi di terrore scomparve buona parte della popolazione delle due città. Messina, che all’epoca contava circa 140.000 abitanti, ne perse circa 80.000, mentre a Reggio i morti furono circa 15.000 su una popolazione di 45.000. Una terribile tragedia che vide scomparire in pochi secondi interi nuclei familiari.

Già in passato la Calabria e lo Stretto di Messina erano state più volte colpite da grandi terremoti che avevano raso al suolo i centri abitati, ma quello del 1908 fu forse il più violento sia per i danni causati (il 90% delle abitazioni di Messina crollarono) sia per l’elevato numero di morti (circa 95.000, un numero davvero drammatico e impressionante). Quella notte, poi, avvenne una tragedia nella tragedia, poiché furono molti quelli che, scampati al terremoto, impauriti, feriti e al buio, si riversarono in massa sulle spiagge cercando una via di scampo e non potendo immaginare che quell’idea li avrebbe condotti alla morte. Dopo circa dieci minuti dal terremoto, infatti, le acque dello Stretto si ritirarono e un violento maremoto, oggi più noto come  Tsunami, si abbatté sulle coste calabro-sicule, con almeno tre grandi ondate di oltre 10 metri (13 mt a Pellaro) che travolsero con sé tutto ciò che trovarono, compresi i terremotati che si erano riversati sulle spiagge.

All’alba i danni della furia della natura si rivelarono nella loro drammatica tragicità. Tutte le vie di comunicazione, strade, ferrovie, telegrafo, erano interrotte, tubazioni del gas e cavi elettrici distrutte, illuminazione stradale mancante fino a Palmi. L’area dello Stretto era, quindi, completamente isolata dal resto del mondo. E così restò per almeno 24 ore.

I superstiti di entrambe le regioni, infatti, vennero soccorsi solo il giorno dopo, martedì 29 dicembre, quando si cominciò a realizzare quale disastro fosse accaduto in quella zona. I primi a raggiungere le coste disastrate dal terremoto furono i russi e gli inglesi provenienti da alcune navi militari che si trovavano in zona.  Tra i soccorritori si distinsero in particolare proprio i russi, ai quali la città di Messina, nel 2006, ha dedicato una strada cittadina in segno di riconoscimento.

Le prime navi italiane arrivarono solo dopo che il Governo apprese la drammatica notizia, nella tarda mattinata del 29.

Da terra, invece, la prima squadra di soccorso che raggiunse Reggio fu di volontari partiti da Cosenza, guidati dall’esponente socialista Pietro Mancini (padre di Giacomo, futuro Ministro della Sanità e dei Lavori pubblici).  Ricordiamo, inoltre, tra i primi soccorritori: il generale Mazzitelli con un centinaio di soldati, i dottori Annetta e Bellizzi provenienti da Lazzaro, l’avvocato Berardelli di Cosenza e 150 uomini che provenivano da Cirò. I volontari che avevano portato con sé un po’ di cibo, furono assaliti dalla folla di superstiti affamati, che strappò letteralmente loro il pane dalle mani. Anche i volontari, quindi, digiunarono fino a che non arrivarono gli aiuti inviati dal Governo.

La descrizione che Mancini fa di Reggio può rendere l’idea di come apparve la città agli occhi dei primi soccorritori.

 "Le descrizioni dei giornali di Reggio e dintorni sono al di sotto del vero. Nessuna parola, la più esagerata, può darvene l’idea. Bisogna avere visto. Immaginate tutto ciò che vi può essere di più triste, di più desolante. Immaginate una città abbattuta totalmente, degli inebetiti per le vie, dei cadaveri in putrefazione ad ogni angolo di via, e voi avrete un’idea approssimativa di che cos’è Reggio, la bella città che fu." 

 Mentre la città di Messina fu quasi completamente rasa al suolo con la scomparsa di più della metà della sua popolazione, Reggio subì meno danni ma non meno dolore. Tra le numerose vittime ricordiamo le 600 del 22° fanteria nella caserma Mezzacapo e quelle dell’ospedale civile, dove si salvarono solo 29 pazienti su un totale di 230 ricoverati. Solo queste cifre ci danno l’idea di ciò che fu. Danni si registrarono anche nella provincia reggina, dove a Palmi crollò la chiesa di san Rocco e il Duomo.  Il sisma raggiunse anche Tiriolo, nel catanzarese, dove molti edifici crollarono e si registrarono alcuni morti.

Tra le tantissime vittime della costa siciliana voglio ricordare l’immensa tragedia che colpì Gaetano Salvemini, allora docente presso l’università di MESSINA, che perse tutta la famiglia (moglie e figli) sotto le macerie, restando l’unico sopravvissuto.

Le scosse di assestamento furono numerosissime e si ripeterono fino al marzo 1909


In occasione di questo terribile terremoto, in Italia si verificò, per la prima volta, assistenza ai terremotati sia da parte dello Stato che per l’opera di numerosi soccorritori italiani e stranieri, civili e militari (tra questi: marinai, carabinieri e bersaglieri che provvidero anche ad operazioni di pubblica sicurezza contro gli atti di sciacallaggio). Le navi da guerra si trasformarono ben presto in ospedali galleggianti. Il re e la regina d’Italia, insieme al ministro per i lavori pubblici raggiunsero Messina il 30. La regina si occupò dei feriti che venivano trasportati sulle navi, mentre il re, dopo un vivace battibecco col sindaco di Messina, che accusò il Governo di essere intervenuto con ritardo, destituì il sindaco e proclamò lo Stato d’Assedio per le zone terremotate.

Oltre al sindaco, a scagliarsi contro il Governo Italiano, fu, nei giorni seguenti, soprattutto la stampa. In principio, quando ancora non si conosceva la gravità dell’evento, i giornali parlarono di alcuni morti per un terremoto in Calabria, poi col sopraggiungere di nuove notizie, la gravità della situazione si cominciò a delineare.

"ORA DI STRAZIO E DI MORTE. Due città d'Italia distrutte. I nostri fratelli uccisi a decine di migliaia a Reggio e Messina". Titolò il Corriere della Sera del 30 dicembre.

Le polemiche post-terremoto, si fondavano soprattutto sul ritardo con cui il Governo aveva inviato gli aiuti alla popolazione terremotata. In seguito la polemica montò per via dei provvedimenti finanziari adottati e in particolare per l’aumento delle tasse. I giornali accusarono il Governo di aver speso molto denaro proveniente dai fondi raccolti in occasione dei terremoti precedenti senza che le popolazioni terremotate ne traessero i dovuti benefici. Anche la Marina italiana venne pesantemente criticata, perché giudicata impreparata ad affrontare tali eventi rispetto alla capacità dimostrata dalle squadre navali straniere.

C’è da dire però che in occasione di tale terremoto, iniziò anche una straordinaria gara di solidarietà che vide Capi di Stato di varie Nazioni inviare soccorritori e, in alcuni casi, anche aiuti finanziari. In Italia la Croce Rossa e l’Ordine dei cavalieri di Malta organizzarono i soccorsi e si formarono, un po’ in tutta la Penisola, dei comitati per la raccolta di denaro, cibo e vestiario.

La stima ufficiale parla di circa 17.000 persone ritrovate vive sotto le macerie e salvate dai soccorritori italiani e stranieri. Mentre l’Esercito e la Marina, persero circa 1.000 uomini, alcuni dei quali durante le operazioni di soccorso.

Cominciò quindi il lento processo per la ricostruzione. Reggio Calabria fu ricostruita nel primo ventennio del XX secolo. Nel 1911 l'ingegnere reggino Pietro De Nava, assessore ai lavori pubblici, progettò il nuovo piano regolatore (detto "piano De Nava") che prevedeva costruzioni antisismiche e in stile liberty. Reggio risorse dalle macerie, diventando nel corso del secolo la città più popolosa della Calabria, grazie anche ad una forte emigrazione interna, con i residenti della provincia che si riversarono in città. E' oggi una delle città metropolitane d'Italia.
 
Per Messina, invece, si era pensato di demolire completamente il poco che era rimasto ancora in piedi e di ricostruire la città altrove, ma, com’era prevedibile, la popolazione si ribellò a quest’idea. La città venne ricostruita lì dove sorgeva ma, stavolta con nuovi criteri più moderni e, soprattutto, con metodologie antisismiche.
Subito dopo il sisma sorsero le prime tendopoli che furono poi sostituite dalle baraccopoli che, come accade in questi casi, dovrebbero essere sistemazioni momentanee ma che restarono, invece, in gran parte abitate per decenni prima che la ricostruzione fosse completata. La cosa incredibile è che alcune di quelle baracche ci sono ancora e sono ancora occupate. Secondo alcuni, gli occupanti sono gli eredi dei sopravvissuti che continuano ad aspettare, dopo 106 anni, una casa vera e propria. Secondo altri, gli occupanti odierni sono degli abusivi che hanno occupato le baracche quando i terremotati le hanno lasciate. Io non so quale sia la realtà delle cose, l'unica cosa certa è che una baraccopoli non è il luogo adatto all'esistenza di un essere umano.

 

Reggio Calabria dopo il terremoto


Messina distrutta dopo il terremoto


Alcuni superstiti a Reggio Calabria, sullo sfondo le rovine della città.
 

I danni subiti in città.


Palmi (RC) distrutta dopo il terremoto



La baraccopoli di Reggio

Le foto sono state prelevate dal web e sono di pubblico dominio.

sabato 20 dicembre 2014

Resoconto di fine anno e auguri.

Cari lettori,
questo blog ha solo tre mesi di vita ed essendo un blog di quelli che trattano argomenti di tipo "culturale" è veramente difficile che diventi molto popolare, anche perché le storie narrate toccano una popolazione di sole due milioni d'anime... in un mondo che di anime ne conta circa sette miliardi! Praticamente, una piccola goccia in mezzo al mare!
Nonostante tutto, voglio ringraziare i 306 lettori (fino ad oggi) che si sono soffermati a leggere i miei post e ringrazio ancora chi ha voluto lasciare anche un gentile e apprezzatissimo commento. 
Il mio grazie va sia ai lettori italiani sia a quelli di altri Paesi d'Europa e del mondo, tra questi ultimi, in particolare, ringrazio e saluto i lettori statunitensi che, dopo gli italiani,  sono tra i più numerosi e assidui frequentatori del blog. E' facile presupporre che anche i lettori stranieri siano in maggioranza di origine italiana, questo blog è nato anche per loro, per gli italiani che risiedono all'estero. Nel mio piccolo, mi auguro che gli argomenti trattati li facciano sentire più vicini a casa.
Approfitto dell'occasione per porgere a tutti voi i migliori auguri per un sereno Natale e un felice 2015. Vi saluto dandovi appuntamento al nuovo anno con nuove storie tutte calabresi!
Angie 
 
Il Blog "Gente di Calabria" augura a tutti BUONE FESTE!!!
The Blog "People of Calabria" whishes you Happy holidays!
¡El blog "Gente de Calabria" le desea FELICES FIESTAS!
Le Blog " Les Gens de Calabre" vous souhaite de joyeuses fêtes!
Der Blog " Menschen Calabria" wünscht Ihnen frohe Festtage!
Den Blog "Mennesker Calabria " ønsker dig glad helligdage!

mercoledì 3 dicembre 2014

Giovanni Battista Saggio detto Nicola


Per questo mese di dicembre, col Natale ormai alle porte, voglio raccontarvi la storia di un religioso calabrese che è stato canonizzato pochi giorni fa dal nostro amato Papa Francesco.

 
"Spera in Dio e stai allegro"

 
Il 6 gennaio del 1650 nel paese di Longobardi (Cosenza) nasceva Giovanni Battista Saggio. Era il figlio primogenito di Fulvio e Aurelia, contadino lui e filatrice lei. La famiglia fu allietata anche dall'arrivo di altri quattro figli.
 Nonostante la sua famiglia fosse povera e semplice, Giovanni Battista riuscì a frequentare la scuola imparando a leggere e scrivere. Fino ai vent'anni fece il contadino per aiutare la famiglia bisognosa ma, durante la sua giornata di lavoro, non dimenticava mai di pregare il Signore. Frequentava sovente la chiesa, partecipava alla messa e si confessava di frequente. La gente diceva di lui che era di animo nobile e di carattere allegro e simpatico.
L'assidua frequentazione del convento dei frati Minimi del suo paese, fece accrescere in lui il desiderio di dedicarsi completamente alla vita religiosa. Quando rivelò il suo proposito ai genitori, questi non accolsero bene la notizia e non gli permisero di pronunciare i voti, fu allora che accadde il primo fatto inspiegabile.
Giovanni Battista obbedì alla volontà dei genitori ma perse improvvisamente la vista, il padre e la madre allora, capendo che quello doveva essere un segno divino, gli diedero il permesso di entrare in convento e il giovane riacquistò la vista.

immagine presente nel sito: www.sannicolasaggio.it
Cominciò, quindi, il suo noviziato e, dopo due anni, entrò finalmente nell'ordine dei Minimi, fondato da San Francesco da Paola, scegliendo il nome di Nicola.  Da quel momento in poi per tutti sarà "fra Nicola".
 Dapprima fu mandato nel convento di Longobardi, poi venne trasferito in quelli di San Marco Argentano, di Montalto Uffugo,  di Cosenza e di Spezzano della Sila, dove svolse sempre le mansioni più umili senza mai lamentarsi.
Nel 1677 fu chiamato al convento di Paola dove divenne segretario del provinciale, poi nel 1679 lasciò la Calabria per essere trasferito a Roma nel convento di San Francesco ai Monti.
A Roma si dedicò principalmente alla catechesi dei giovani. La sua spiritualità gli concesse la stima delle famiglie romane che se lo contendevano nell'istruzione religiosa dei figli.
Quando i turchi arrivarono alle porte di Vienna, Nicola affrontò un pellegrinaggio a piedi fino a Loreto, per chiedere alla Madonna la liberazione della città.
 
La sua vita fu colmata da esperienze mistiche, estasi e contemplazioni del mistero della Trinità.
Visse anche il fenomeno mistico della "Transverberazione" cioè l'essere trafitto, nel suo caso, dal dardo di un angelo, ed ebbe la visione di Gesù che gli porgeva l'anello sponsale dei mistici.
In seguito, ritornò in Calabria per altri due anni, risiedendo a Paola prima e a Longobardi dopo. Fu nel suo paese che si occupò del restauro della Chiesa e del convento dei Minimi. La famiglia romana dei Colonna, che lo stimava e apprezzava, non solo gli fece tenere a battesimo il piccolo Lorenzino, figlio di don Filippo e della principessa Panfili, ma per volontà testamentaria della principessa Luisa de la Cerda, gli donò il corpo della martire cristiana Innocenza, da tumulare nella nuova chiesa restaurata.
Ritornato definitivamente a Roma, fra Nicola si occupò principalmente dell'assistenza ai poveri e bisognosi.
Nel 1709 essendoci il pericolo di un nuovo saccheggio di Roma, si adoperò con la preghiera di adorazione al Signore per allontanare questo  pericolo.
Si ammalò per via di un' infiammazione polmonare che lo costrinse a letto per molto tempo. Al suo capezzale accorse molta  gente, sia nobili, sia popolani e prelati.
Il 2 febbraio del 1709, aggravatosi, ricevette l'Unzione degli infermi. Il giorno seguente, 3 febbraio, ricevette la richiesta di preghiere e di intercessione da Papa Clemente XI, poi, stringendo tra le mani il Crocifisso ed esclamando :“Paradiso, Paradiso”, spirò.   Aveva 59 anni.
Dopo la morte, la sua fama di santità si diffuse per l'Italia raggiungendo anche i confini europei, tanto che alcuni sovrani come Carlo VI  e  Filippo V di Spagna furono tra coloro che chiedevano la sua canonizzazione.
 
Il 17 marzo del 1771 fu dichiarato venerabile e i due miracoli per la beatificazione furono riconosciuti il 2 aprile 1786.



Il 12 febbraio 1729, infatti, un bambino di dieci anni, Francesco Parinoli, si ferì gravemente giocando con i fratelli. Il medico, accorso a visitarlo, realizzò che la situazione era molto grave e che non poteva porvi rimedio, poiché il ragazzino aveva avuto una fuoriuscita inguinale con ingrossamento e infiammazione dell'intestino. La zia del bambino, Teresa Lucia Vasari, pregò invocando l'aiuto del servo di Dio fra Nicola da Longobardi e fu allora che si sentì il piccolo infermo gridare: " Sono guarito, non ho più niente!". L'intestino, infatti, si era miracolosamente rimesso al suo posto.
Il secondo miracolo attribuito per intercessione di fra Nicola, avvenne a Spezzano, dove un uomo di nome Pietro Di Mango era infermo con febbre ed emorragie da molto tempo.  Un frate dell'ordine dei minimi che lo visitò, domandò a suor Maria Di Mango, sorella dell'infermo, se aveva qualche reliquia del frate in odore di santità, la suora rispose di avere una ciocca di capelli di fra Nicola, il frate mise i capelli in un bicchiere d'acqua e li fece bere all'infermo che, dopo pochi minuti, smise di sanguinare e il giorno dopo venne trovato completamente guarito.
A seguito di questi due miracoli, Nicola venne beatificato il 17 settembre 1786 da Papa Pio VI. Divenne quindi patrono del suo paese natale, Longobardi.
 
Il miracolo per la Canonizzazione avvenne, invece, nell'estate del 1938 quando Giuseppe Laudadio di Longobardi, all'epoca sedicenne, lavorava come muratore e, d'improvviso, cadde da un' impalcatura, precipitando da un'altezza di circa 12 metri e finendo rovinosamente su pietre e cemento. Nel momento della caduta, il giovane rivolse il pensiero a fra Nicola ed ebbe come una visione di lui. Una volta raggiunto il suolo si rialzò da terra completamente illeso. I compagni di lavoro, sentendo il tonfo, accorsero e costatarono che il giovane si era procurato solo un graffio al ginocchio destro.
Nel 2008 si è aperta l'inchiesta diocesana e il 13 dicembre del 2012 la consulta medica della Congregazione delle Cause dei Santi ha dichiarato il caso scientificamente inspiegabile.
Fra Nicola da Longobardi è stato proclamato santo il 23 novembre 2014 in piazza San Pietro da Papa Francesco.
Il suo paese, Longobardi, gli ha intitolato una chiesa e lo festeggia il 10 di agosto.
 
Se volete approfondire ulteriormente la storia di questo santo, vi consiglio di visitare il sito a lui dedicato www.sannicolasaggio.it
 
 
Vi do appuntamento al prossimo mese con una nuova storia tutta calabrese!

 



sabato 1 novembre 2014

CARMELA BORELLI

La "Madre eroica"
La storia che vi racconto questo mese accadde a Sersale, in provincia di Catanzaro, durante il ventennio fascista. E' la storia di Carmela, una donna, una sposa, una madre. Una storia del tutto simile alle due precedenti, perché simile è l'esistenza delle persone semplici. A spegnere improvvisamente la vita di questa donna non ci fu, però, una mano assassina com'era accaduto per Giuditta e Teresa, qui la tragicità avvenne ad opera della natura o, se vogliamo, del destino infausto.
 
Carmela era una contadina della Calabria del primo novecento, sposata a un pastore. Un'esistenza semplice la sua, fatta di piccole gioie, come l'arrivo dei figli, ma anche di tanta fatica e di sacrifici che nelle famiglie contadine non risparmiavano neanche i bambini, abituati, fin dalla tenera età, ad aiutare i genitori nel lavoro domestico e nei campi. La sua storia rispecchiava quella di tante donne del suo tempo fino a quando, nel 1929, accadde il tragico imprevisto che la rese famosa in tutta Italia.
Carmela lavorava in una località chiamata "Mirtilliettu", sulla costa ionica catanzarese, dove soleva rimanere per buona parte dell’anno per procurare il grano necessario per il pane. Suo marito spesso era lontano, per seguire gli animali al pascolo e la donna restava sola con i figli. Il 21 febbraio del 1929, era una bella giornata, il cielo sembrava quasi voler preannunciare l’arrivo di una precoce primavera e Carmela decise di rientrare al paese, a Sersale, insieme ai due figli più piccoli: Costanza di nove anni e Francesco di cinque.
La donna si mise in viaggio con i bambini e due asini carichi di grano, ella portava con sé anche un pezzo di stoffa che aveva conservato gelosamente per farsi fare una nuova gonna dal sarto del paese. Mentre percorreva la mulattiera che dalla marina saliva verso Sersale, situato nella presila catanzarese, il tempo, improvvisamente, cominciò a mutare. Il cielo si chiuse diventando pallido e un vento freddo cominciò a soffiare dalle montagne, trasportando con sé qualche fiocco di neve. Sorpresa da quel repentino abbassamento della temperatura, Carmela affrettò il passo ma il vento cominciò a diventare più impetuoso e la neve prese a cadere copiosa, finché una vera e propria bufera si abbatté sulla zona imbiancando, in pochi minuti, tutto il paesaggio circostante. Sopraffatti dall’abbondante nevicata, Carmela e i suoi figli cercarono di raggiungere in fretta il paese ma i bambini cominciarono a soffrire il freddo e rallentarono il passo, la madre li esortava a continuare mentre spronava i due asini col loro prezioso carico. I bambini piangevano per il freddo e Carmela, allora, prese in braccio il piccolo Francesco e proseguì il cammino sulla neve che era già alta, esortando la figlia più grande a seguirla senza fermarsi.
Anche gli animali, con i loro carichi, faticavano nel proseguire il cammino e, dopo poco, uno dei due asini cadde a terra morto dal freddo, vicino a un luogo chiamato nel gergo locale: "i tri cavunielli".
Stava percorrendo quella stessa mulattiera un agricoltore del luogo, di nome Felice Torchia, anche lui sorpreso dalla tormenta di neve mentre risaliva in paese. Incrociando la donna la esortò ad abbandonare l’asino e a proseguire il cammino più in fretta con i figli ma Carmela non volle dargli ascolto e, convinta di potercela fare, con Francesco in braccio e Costanza al suo fianco, continuò a spronare l’asino che le era rimasto e che era prezioso per eseguire i faticosi lavori di campagna.
La speranza di riuscire a raggiungere il paese si era rafforzata, perché in lontananza si scorgevano le prime case del centro abitato.
Ma, poco dopo, anche l’altro asino cadde a terra morto. Francesco e Costanza erano piccoli e cominciarono anche loro a mostrare i primi segni di congelamento, la madre  se ne avvide e, disperata, si tolse i miseri vestiti che portava addosso e vi coprì i figli, cercando in questo modo di scaldarli. Con la leggera sottoveste che le era rimasta addosso, la sfortunata donna continuò a camminare a stento nella neve, con Francesco in braccio e tenendo Costanza per mano, mentre il vento gelido e impetuoso soffiava su di loro imbiancandoli di neve e gelandogli il sangue nelle vene. Il paese era lì, a poche centinaia di metri, quando Carmela cadde a terra nella neve, cercò di rialzarsi ma non ce la fece, cercò di chiamare aiuto ma la voce non le uscì dalla bocca, allora, resasi conto di quanto le stava accadendo, abbracciò forte a sé i figli, cercando di ripararli col suo corpo dal grande freddo.
Nel frattempo, Felice Torchia era arrivato in paese chiedendo l'aiuto dei compaesani per soccorrere la povera Carmela e i suoi figli in balìa della tormenta lungo la mulattiera. Dalle case uscirono i primi soccorritori che si diressero verso il punto indicato loro dal Torchia. La bufera, intanto, aveva iniziato ad attenuarsi e gli uomini riuscirono a localizzare la povera donna nella bianca distesa. Carmela e i bambini furono trasportati in una delle prime case e messi vicino al focolare, mentre qualcun altro corse a chiamare il dottore ma, quando questi giunse sul posto, Carmela era già spirata per assideramento.
Francesco e Costanza si salvarono grazie al sacrificio della loro mamma, che non aveva esitato a denudarsi per ricoprirli con le sue vesti e  li aveva riscaldati col calore del suo corpo, stringendoli a sé in un ultimo abbraccio d’amore. 
La tragedia di Carmela Borelli e il suo atto d’amore verso i figli rimbalzò, nei giorni seguenti, sui giornali italiani e sia la "Tribuna Illustrata" che il "Mattino Illustrato" le dedicarono la copertina del 1° marzo 1929, facendo conoscere a tutti la storia di questa, fino allora, sconosciuta donna calabrese, che divenne la “Madre Eroica” d’Italia. 
Le piccole italiane di Milano offrirono al comune di Sersale un monumento in marmo bianco che rappresenta una colonna spezzata, simbolo della vita della giovane mamma spezzata troppo precocemente.  Il monumento è ancor oggi presente nella piazza dedicata proprio a Carmela Borelli. Il suo paese, inoltre, la ricorda con l'intitolazione di una strada e della scuola elementare.

Credo che non esistano foto di Carmela Borelli, quindi, vi lascio alle raffigurazioni che di lei fecero le prime pagine dei giornali dell'epoca: "Il mattino illustrato" e la "Tribuna illustrata".






Sersale, 21 febbraio 1959
Gli scouts rendono omaggio al monumento di Carmela Borelli, in occasione del 30° anniversario della morte.
 
Anche la città di Cosenza le ha intitolato una scuola elementare, mentre lo scrittore calabrese Michele Scarpino, le ha dedicato il libro "Una mamma eroica. Carmela Borelli" edito da Frama Sud nel 1979.
A Sersale, recentemente, è sorta anche l'Associazione Pro Fondazione Carmela Borelli  con scopi di solidarietà e utilità sociale. Anche la proloco di Sersale l'ha voluta ricordare, istituendo il premio “Carmela Borelli” che ogni anno premia la donna calabrese che si è distinta per qualche gesto importante.

giovedì 2 ottobre 2014

TERESA TALOTTA GULLACE

Ricordate lo splendido film di Roberto Rossellini "ROMA CITTA' APERTA"? Capolavoro del cinema Neorealista a livello mondiale? La scena che più torna alla mente è quella della sora Pina, interpretata magistralmente dalla grande Anna Magnani, che si lancia all'inseguimento di un camion tedesco nel vano tentativo di liberare il marito prigioniero dei nazisti, cadendo rovinosamente a terra dopo essere stata colpita a morte dal fuoco tedesco.
Ebbene, forse non tutti sanno che il personaggio così romanesco della sora Pina, in realtà è ispirato alla tragica vicenda di una donna che non era romana bensì calabrese. La "sora Pina" nella vita reale si chiamava Teresa Talotta ed era nata a Cittanova, in provincia di Reggio Calabria, l'8 settembre 1907.
Teresa Gullace ( fonte: web)
 
 
Era poi emigrata a Roma, si era sposata con Girolamo Gullace ed era diventata madre di ben cinque figli. Teresa viveva nella Roma occupata dai nazisti, aveva 37 anni ed era incinta del suo sesto figlio, quando il 26 febbraio del 1944, durante uno dei rastrellamenti effettuati dai nazisti per i quartieri della Capitale, anche suo marito Girolamo venne catturato e portato in caserma insieme ad altri uomini.
Il 3 marzo 1944 molte donne si recarono alla caserma di viale Giulio Cesare per protestare contro l'ingiusto arresto dei loro uomini, tra di esse c'era ancheTeresa, la quale scorse il marito da una delle finestre della caserma e si avvicinò nel tentativo di parlargli, incurante delle urla di un soldato tedesco che le intimava di allontanarsi. Il tedesco, allora, estrasse la sua arma e le sparò, uccidendola.
Quel giorno, ben camuffate tra le donne presenti, vi erano le compagne partigiane: Laura Lombardo Radice, Carla Capponi e Marisa Mossu che assistettero alla tragedia. La Capponi, subito reagì d'istinto ed, estratta la sua pistola, la puntò dritta contro il soldato tedesco che aveva ucciso la povera Teresa, ma le altre donne l'attorniarono impedendole di sparare e la compagna Marisa Mossu, svelta, le sottrasse la pistola e le infilò in tasca una tessera di un'associazione fascista. Grazie allo stratagemma della Mossu, la Capponi, dopo essere stata inizialmente arrestata dai tedeschi, riuscì a farsi liberare. Intanto il corpo della sfortunata Teresa era rimasto lì a terra e le partigiane Lombardo Radice, Adele Maria Jemolo e Marcella Lapiccirella, organizzarono una protesta pacifica, allestendo una camera ardente in strada, dove una folla sempre più numerosa si mise a pregare e a portare fiori sul corpo esanime di Teresa. La protesta popolare per l'accaduto, fu talmente imponente che i nazisti furono costretti a liberare Girolamo Gullace.
Laura Lombardo Radice e Pietro Ingrao, suo futuro marito e futuro presidente della Camera dei Deputati, stesero un manifesto sull'accaduto e Teresa, da sconosciuta calabrese emigrata a Roma, moglie coraggiosa e mamma felice di cinque creature, divenne uno dei simboli della Resistenza romana contro il nazi-fascismo.
 
Nel 1977, l'allora presidente della Repubblica Italiana, Giovanni Leone, la insignì della medaglia d'oro al merito civile con la seguente motivazione:
"Madre di cinque figli ed alle soglie di una nuova maternità, non esitava ad accorrere presso il marito imprigionato dai nazisti, nel nobile intento di portargli conforto e speranza. Mentre invocava con coraggiosa fermezza la liberazione del coniuge, veniva barbaramente uccisa da un soldato tedesco."

Otre al film di Rossellini, che ho già citato, nel 2011 un altro film si è ispirato alla sua vicenda : "Anna, Teresa e le resistenti" per la regia di Matteo Scarfò.
A Roma le sono state dedicate due scuole, mentre in viale Giulio Cesare, dove fu uccisa, una lapide la ricorda.
A Cittanova, suo paese d'origine, le è stata intitolata la strada dov'era nata.

Prima di concludere questo racconto, volevo farvi partecipi di una piccola curiosità: c'è un filo sottile che lega Anna Magnani e Teresa Gullace, anche l'attrice romana, simbolo del cinema italiano, aveva un po' di sangue calabrese nelle vene. La Magnani, infatti, portava il cognome materno e, facendo una ricerca sulle sue origini, scoprì di essere figlia naturale di un calabrese.