UN CANDIDO FIORE NEL GIARDINO DELLA CHIESA.
Lo scrittore calabrese Corrado Alvaro disse che "il calabrese o è pessimo o è ottimo, non conosce mezze misure". Oggi vi racconterò la storia di due calabresi, uno che visse la sua vita in maniera pessima e l'altra che la visse brevemente ma in ottimo modo. Facendo riferimento ai soli calabresi "buoni", si dice, inoltre, che la Calabria sia una terra di santi e forse è anche vero visto che il paese di Longobardi, in provincia di Cosenza, tra santi, beati e servi di Dio, ha la fortuna di averne generati addirittura quattro! Vi ho già raccontato la storia di San Nicola da Longobardi , per l'appunto, e oggi vi racconterò la storia di una ragazzina di soli sedici anni che si chiamava Arcangela Filippelli.
Arcangela nacque a Longobardi in contrada “Timpa”, il 16 marzo del 1853, anche se, come accadeva spesso in passato, venne registrata in Comune il giorno successivo. Suo padre era Vincenzo Filippelli e faceva il bracciante mentre la sua mamma era Domenica Pellegrini, filatrice. I coniugi Filippelli erano persone oneste e religiose e insegnarono alla loro figlia la devozione per la religione. Arcangela fin da bambina frequentava assiduamente la Chiesa del paese. I compaesani la ricordavano per la sua bellezza, i capelli biondi e il suo sorriso gentile.
Era lei la ragazza più bella del paese e di ciò si accorse un suo compaesano, un certo Antonio Provenzano che in paese non godeva di una buona fama.
Il 7 febbraio 1869 era la domenica di Carnevale e in casa Filippelli mancava la legna da ardere. La madre di Arcangela mandò la figlia a casa di una compaesana, Anna Provenzano, per procurarsi un po' di legna, poiché il marito della donna lavorava come custode di un bosco privato. Quel giorno però anche in casa Provenzano mancava la legna, quindi la donna mandò Arcangela insieme alle sue tre figlie nel bosco privato in contrada “Russo” per procurarsi la legna di cui avevano tutti urgente bisogno. Il marito della signora Provenzano si chiamava Arcangelo ma, a dispetto del suo nome, era stato soprannominato “Lucifero” dai compaesani. Suo figlio Antonio, invece, era soprannominato "Facione", in entrambi i casi, i soprannomi stavano ad indicare che entrambi non erano degli stinchi di santo e che era meglio starne alla larga.
Dopo la Messa, Arcangela si avviò nel bosco insieme alle tre amiche. Sgattaiolarono via veloci per non rischiare di essere coinvolte nei festeggiamenti per il Carnevale, che all'epoca erano ritenuti occasione di peccato e roba per soli uomini. Antonio, però, lasciò perdere il Carnevale e, vedendo Arcangela, seguì le ragazze nel bosco con la scusa di volerle aiutare.
Il ragazzo aiutò prima le sorelle a legare le fascine di legna e, dopo aver sistemato il carico sulle loro teste, le invitò a rientrare in paese mentre lui sarebbe rimasto ad aiutare Arcangela. Era chiaro che il giovane cercava una scusa per restare solo con la ragazza, ma le sue sorelle non vollero lasciare l'amica e allora Antonio sistemò l'ultimo carico e, probabilmente, legò in malo modo la fascina, perché, fatti pochi metri, il carico di Arcangela si sciolse e la legna finì a terra.
Antonio allora spronò le sorelle ad avviarsi verso il paese perché si stava facendo buio e restò con l'ignara Arcangela per aiutarla a raccogliere nuovamente la legna caduta.
Fu allora che Antonio iniziò ad insidiare la povera ragazza, la quale, impaurita, iniziò a correre e ad urlare per il bosco mentre il giovinastro, sempre più intestardito nelle sue cattive intenzioni, la inseguiva. La giovane, in preda al panico, raggiunse un'altura dove si ergeva un albero di castagno e, non sapendo più dove fuggire né dove nascondersi, si aggrappò con la forza della disperazione all'albero. Il malintenzionato la raggiunse, insistendo nelle sue richieste oscene ma ottenne solo rifiuti decisi da parte della ragazza.
«La Madonna non vuole queste cose!» e «Morta sì, ma non mi farò mai toccare da te!» sono le parole che i testimoni dissero di aver sentito pronunciare da Arcangela.
Infuriato per l'essere stato rifiutato, Antonio estrasse la scure che portava con sé e cominciò a inveire sulla povera ragazza, colpendola a morte e mutilandole le mani, le orecchie e i piedi, infierendo poi sul resto del corpo con oltre quaranta colpi.
Sia le sorelle Provenzano che alcuni contadini che si trovavano in zona, sentirono le urla della sfortunata ragazza ma, a causa del buio, della nebbia e della paura, nessuno si avvicinò per tentare di aiutarla. E, cosa ancora più grave, nessuno pensò di correre in paese a chiedere aiuto.
Fattasi sera, i genitori di Arcangela, non vedendo rientrare la loro figlia, iniziarono a preoccuparsi e così partirono le ricerche della ragazza. Antonio, nel tentativo di mascherare il delitto, si mise addirittura a capo di uno dei gruppi di volontari e quando gli uomini si avvicinarono troppo al luogo dove giaceva il corpo della povera Arcangela, smorzò il lucignolo della lanterna per impedire agli altri di vedere.
Ci volle il sole dell'indomani perché il bracciante Pasquale Cavaliere, potesse ritrovare il cadavere e avvertire le autorità e la famiglia della sfortunata ragazza. I sospetti caddero subito su Antonio, il quale aveva cercato di crearsi un alibi recandosi al lavoro come se nulla fosse stato. Le sue sorelle, dapprima terrorizzate per quanto accaduto all'amica, trovarono poi il coraggio di denunciare il fratello che venne prelevato dal posto di lavoro e arrestato.
Tutta la popolazione di Longobardi e molti abitanti dei paesi limitrofi parteciparono al funerale di Arcangela, che fu seppellita nel cimitero cittadino.
Antonio venne processato davanti alla Corte d’Assise di Cosenza e il 17 maggio 1869 venne condannato a morte. La pena però non fu eseguita perché lui morì di cancrena il 5 agosto 1872, presso il carcere di Cosenza.
Quasi da subito la gente prese a visitare la tomba di Arcangela, la sfortunata ragazza che nessuno aveva saputo aiutare e che si era opposta alla violenza fino a morirne. Si creò una sorta di pellegrinaggio per cui, don Domenico Cananzi, a nome dei fedeli della sua comunità, ottenne il permesso dal Vescovo di Tropea di traslare il corpo della giovane martire nella chiesa di San Francesco di Paola a Longobardi.
Il 22 settembre del 1973, sul luogo del martirio, fu eretta una croce, benedetta dall’allora Arcivescovo di Cosenza, monsignor Enea Selis.
Il parroco della chiesa di San Francesco, don Francesco Miceli, raccolse numerose testimonianze per chiedere l’apertura di un processo canonico, poiché la storia di Arcangela era del tutto simile a quella della più conosciuta Maria Goretti, per cui la giovane calabrese ancora oggi è detta: "la Maria Goretti del sud". Il lavoro svolto da don Miceli non poté essere completato a causa della morte dell'anziano prelato e perché, nel frattempo, Longobardi era stata annessa alla Diocesi di Cosenza. Il suo lavoro però non andò perduto e monsignor Salvatore Nunnari, attuale Arcivescovo di Cosenza-Bisignano, costituì la Postulazione per la causa di beatificazione e canonizzazione di Arcangela. Il 7 febbraio 2007 la Conferenza Episcopale Calabra espresse il suo parere favorevole e il 23 di maggio giunse il nulla osta da parte della Santa Sede. L’inchiesta diocesana sul martirio di Arcangela Filippelli si è conclusa il 29 maggio 2013. Adesso Arcangela è Serva di Dio e col suo gesto di preservare la purezza, anche a costo della propria vita, simboleggia un candido fiore nel giardino della Chiesa.
A lei è stato dedicato il film "Arcangela Filippelli. Martire della purezza", presentato nel corso della 9° edizione del "Mendicino Corto" festival internazionale del Cinema.
Il film è stato girato in Calabria, con attori calabresi non professionisti, affiancati dalla presenza nel cast del famoso duo calabrese Battaglia e Misefari, ed è stato prodotto dal "Centro Studi Salvini" e dal settimanale d'informazione dell'Arcidiocesi Cosenza-Bisignano "Parola di Vita".
Il trailer del film su YouTube. |
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"La vita o si vive o si scrive" (L. Pirandello)
martedì 3 febbraio 2015
Arcangela Filippelli
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